Domenico di Michelino
- Alice Maniaci
- 14 gen 2019
- Tempo di lettura: 4 min
Domenico di Francesco, meglio conosciuto come Domenico di Michelino, è un pittore italiano, nato Firenze nel 1417; assunse il nome di "Michelino" dopo la sua assunzione come apprendista di un lavoratore di avorio, chiamato appunto Michelino di Benedetto.
Giorgio Vasari lo indica come allievo di Beato Angelico, anche se la sua pittura è più vicina allo stile di Francesco Pesellino.
Certamente la sua opera più importante è il ritratto di "Dante che mostra da Divina Commedia" in Santa Maria del Fiore a Firenze del 1465 basato sul disegno di Alessio Baldovinetti.
Nella Tavola vediamo al centro, leggermente spostato verso destra (di chi guarda) Dante Alighieri avvolto nel suo tipico abito trecentesco di colore rosso che tiene aperto nella mano sinistra il suo poema.
La mano destra del poeta è raffigurata nell'atto di spiegarci il contenuto della sua opera, illustrato da Domenico di Michelino dello sfondo della tavola: Dante è infatti circondato dagli scenari della Divina commedia come se vi si trovasse ancora immerso.
Partendo dalla sinistra:
Selva oscura: raffigurata da sterpaglie e cespugli di colore scuro, subito dietro le spalle del poeta;
Inferno: dopo la selva, all'estrema sinistra si erge una grande e possente costruzione: questa è la porta dell'inferno sulla quale sono incise le parole citate da Dante:
" Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina potestate,
la somma sapienza e 'l primo amore;
dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch' intrate."
(Dante,Inf. vv. 1-9)
oltrepassata la porta ci troviamo di fronte ad una lunga processione di anime dannate e di diavoli dalle orribili fattezze. Le rocce frastagliate indicano che la scena si svolge sotto terra. Seguendo il movimento delle anime dannate, dall'alto verso il basso, l'ultimo demone che troviamo raffigurato potrebbe essere Lucifero, l'angelo caduto dal cielo, non nella sua raffigurazione dantesca, a testa in giù, ma come il Diavolo di colore rosso avvolto tra le fiamme, nell'iconografia che assume nel tardo medioevo.
Purgatorio: oltre la porta dell’inferno troviamo raffigurato il monte del Purgatorio che si erge al di là di un corso l’acqua leggermente accennato; si tratta del mare dell’emisfero australe attraversato dal poeta per mezzo della navicella leggera traghettata dell’angelo nocchiero per arrivare sulla spiaggia dove lo aspetterà il rito di purificazione prima di proseguire la salita.Analizzando l’immagine dal basso verso l’alto e facendo un confronto con il testo della Divina Commedia, non troviamo subito l’Altra Ripa e le anime dei negligenti, facenti parte dell’Antipurgatorio, ma la narrazione figurale si apre con l’imponente Porta del Purgatorio, molto fedele a quella descritta nel testo dantesco; tre scalini ci conducono alla porta, di tre colori diversi: il primo di marmo candido nel quale è possibile specchiarsi, simbolo della consapevolezza delle colpe commesse, il secondo è di colore scuro di una pietra ruvida, spaccata nella lunghezza e larghezza, simbolo della confessione orale, il terzo è di porfido rosso vivo, colore del sangue che sgorga da una vena e simboleggia la soddisfazione ottenuta con le opere attuate con l’ardore di carità.Sulla soglia di diamante troviamo l’Angelo guardiano in una veste color cenere armato di spada con la quale inciderà sulla fronte del poeta le sette P, dei sette peccati capitali. La porta nel suo colore dorato ricorda probabilmente la Porta del Paradiso di Lorenzo Ghiberti. Oltre la porta comincia la suddivisione delle cornici dantesche, dal peccato più grave a quello meno grave, seguendo un andamento ascensionale fino al paradiso terrestre raffigurato dalle figure di Adamo ed Eva che mostrano il frutto dell’albero della conoscenza. La prima cornice è quella dei Superbi spinti a terra da un peso sulla schiena, seguiti dagli invidiosi che indossano un cilicio e hanno le palpebre cucite, gli iracondi camminano nel fumo, gli accidiosi corrono gridando esempi di accidia punita, gli avari e prodighi sono distesi a terra e legati, i golosi soffrono la fame e la sete e lussuriosi camminano nel fuoco.
Paradiso: raffigurato come una serie di cieli, divisi che variano da un colore più chiaro ad uno più scuro, fanno parte di un mondo immateriale, etereo; i cieli in tutto sono nove di cui i primi sette prendono il nome dai pianeti del sistema solare, ovvero Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, gli altri sono la Sfera delle Stelle Fisse e il Primo Mobile.Nella tela sono raffigurati solo i primi sette, dei quali sono messi bene in evidenza gli astri, circondati in una luce dorata ed il Sole è il più luminoso. L’Empireo non è raffigurato. A destra nella tela è messa in mostra in tutta la sua grandiosità la città di Firenze, illuminata da una luce dorata proveniente da sinistra; della città sono riprodotti i più imponenti monumenti, fungenti anche da punti di riferimento per lo spettatore, che vedendoli comprende all'istante quale città è raffigurata: In primo piano troviamo le mura di Firenze dalle quali si accede per mezzo di una grande porta, forse l’odierna Porta di S.Niccolò, dietro le mura il primo grande monumento che occupa quasi tutto lo spazio destro della tavola è il Duomo di Firenze, S.Maria del Fiore sormontata dalla maestosa Cupola del Brunelleschi; la cattedrale è vista dall’asbide e dal fianco sinistro e sulla facciata si erge il Campanile di Giotto , il tutto descritto minuziosamente e dettagliatamente.
Oltre il duomo si innalzano delle torri, raffigurate in modo molto chiaro: a sinistra del Palazzo del Bargello affiancata alla Guglia del campanile della Badia Fiorentina, a destra la torre del Palazzo della Signoria e piccola nello sfondo forse il campanile della chiesa di S.Croce.
Ai piedi della tela è posta un’iscrizione che riporta tali parole:
"Qui Coelum cecenit mediumque, imumque tribunal,
Lustravitque animo cuncta poeta suo,
Doctus adest dantes sua quem florentia saepe
Sensit consuliis, ac pietate patrem.
Nil potuit tanto mors saeva nocere poetae
Quem vivum virtus carmen imago facit."
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